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CAROVANA IN CHIAPAS 2018-19, PRIMA PARTE
YA BASTA MILANO· GIOVEDÌ 27 DICEMBRE 2018
Pubblichiamo la prima puntata di un reportage scritto dalla nostra delegazione in Chiapas, Messico. Si tratta di un viaggio al quale stanno partecipando due compagne e un compagno di Ya Basta! Milano e di CasaLoca, con la piccola Anita e con la presenza anche di due donne esterne. Alcuni mesi fa, dopo l’ultima importazione di Café Rebelde Zapatista, abbiamo stabilito di inviare una delegazione che rinsaldasse i legami con il movimento zapatista e con la cooperativa di caffè Yachil Xojobal Chulchans, che visitasse alcune comunità e realtà di lotta, e che partecipasse all'Incontro delle Reti che sta appena prendendo il via. Le compagne e i compagni presenti ci hanno inviato dei bellissimi report relativi alla prima parte del viaggio.
Date le sciocchezze circolate nei mesi precedenti a opera di tale Di Battista, pateticamente echeggiate dalla stampa italiana, pensiamo che la lettura di questo piccolo diario di viaggio dia un'immediata evidenza della differenza tra chi pratica internazionalismo e si relaziona con le realtà di lotta, e chi si spaccia per giornalista tacendo alle compagne e ai compagni messicani la propria appartenenza a un partito impresentabile.
Il giro è iniziato l'8 dicembre e si concluderà a gennaio. Pubblicheremo a pezzi il reportage per non appesantire la lettura.
Abbiamo partecipato all’anniversario della Casa de Salud Comunitaria Ji’bel ik (Raiz del Viento). Ci hanno accolto compagni internazionali, un colorato gruppo di bambini e gente del quartiere. La Casa de Salud è uno spazio di lotta, salute e apprendimento nel quartiere popolare di Cuxtitali di San Cristòbal de las Casas. Un luogo che, ispirandosi all’impostazione del sistema sanitario delle comunità zapatiste, affronta la salute della persona nella sua totalità, a livello fisico, mentale ed emozionale. Si parte dal concetto per cui in un mondo malato è impossibile rimanere sani. Il sistema in cui viviamo, capitalista, razzista e patriarcale influenza infatti la nostra salute in tutti i suoi aspetti e da qui nasce l’esigenza di riappropriarsi collettivamente e attivamente della salute, attingendo anche dalla medicina naturale e tradizionale. Il legame col territorio sulla questione della salute si sta rafforzando attraverso la lotta per il diritto all’acqua, un tema molto sentito in queste zone dove l’acqua, seppure abbondante, comporta dei rischi di salute ed è quindi oggetto di speculazione da parte delle istituzioni.
Per i membri della Casa de Salud, assumersi la responsabilità della salute collettiva significa riprendere in mano una conoscenza di cui il sistema si è appropriato, creando uno stato di dipendenza da governo, medici e grandi case farmaceutiche. Per questo considerano che la salute è un aspetto fondamentale della lotta per la vita: “para luchar hay que estar sanos y para estar sanas hay que luchar”.
Oggi, in questa giornata piovosa, siamo stati al Centro de Derechos Humanos Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba), un organismo civile non governativo fondato nel 1989 dal vescovo don Samuel Ruiz Garcìa. Il Frayba concentra la sua attenzione in tre grandi ambiti:
- la promozione e difesa delle popolazioni indigene organizzate; in Chiapas infatti quando le comunità indigene si organizzano lontano dai partiti e dai poteri governativi o per rivendicare i loro diritti comunitari sono oggetto di ostilità da parte dei poteri che alimentano conflitti utilizzando anche le bande paramilitari;
- la costruzione della pace nei conflitti interni armati non risolti, favorendo l’accesso alla giustizia; misure per la riconciliazione e strumenti affinché non si ripetano;
- l’effettivo accesso alla giustizia lottando contro la repressione e l’impunità e sviluppando strategie per la reale applicazione del diritto alla giustizia.
Una delle modalità nelle quali si dispiega il suo lavoro è favorire la presenza di osservatori internazionali nelle comunità sotto minaccia istituzionale. Questi observadores vengono formati nel Centro e vanno a vivere, per un minimo di una settimana, nelle comunità a rischio, condividendo la vita del pueblo e monitorando la situazione, con l’obiettivo di diminuire il rischio di violazione dei diritti umani e comunitari.
Oggi siamo andati in un villaggio zapatista vicino a Comitàn e appartenente alla regione autonoma del Caracol 4 di Morelia. Con il compagno O., che G. già conosceva, è stato il ritrovarsi di due vecchi amici che non si vedono da tempo, e l’accoglienza dell’intera famiglia è stata calorosissima. In qualche minuto c’era già una tavola imbandita di mole, tortillas, fagioli e pollo.
Già sapevano che, poco prima di arrivare, ci eravamo fermati al cimitero poco distante, che aveva attratto la nostra attenzione per via dei colori e della forma delle lapidi; questa cosa ci ha stupiti e fatto capire che nei loro territori non si muove foglia senza che loro lo sappiano.
Tra un piatto e l’altro ci siamo presentati, e il compagno O. ci ha tenuto a raccontarci come la sua famiglia è entrata nell’EZLN. Negli anni ‘70 e ‘80 il padre era un contadino cosciente della sua condizione e delle ingiustizie che tutti i contadini poveri subivano a causa dei proprietari terrieri. Aveva fatto parte di varie organizzazioni sociali contadine, ma ogni volta si imbatteva in modalità gerarchiche: i leader anteponevano il proprio interesse personale a quello dei contadini organizzati. In seguito partecipò alle attività di formazione politico-religiosa della diocesi di San Cristòbal, promosse da don Samuel Ruiz, il vescovo artefice del dialogo tra l’EZLN e lo stato messicano dopo l’insurrezione zapatista. Divenne catechista-promotore sociale (tunele, in lingua indigena), ma poco a poco si rese conto che anche la visione della chiesa non era sufficiente per il riscatto dei contadini poveri; di fronte alle ingiustizie e alle violenze che i padroni e i loro servi paramilitari esercitavano contro i contadini, la via pacifica non era sufficiente: il pacifismo e la non violenza avrebbero condotto le lotte contadine a una sconfitta. Entrò così nell’EZLN con tutta la sua famiglia.
O. ci ha anche raccontato di come il padre sia diventato promotore di educazione dopo che l’EZLN aveva deciso che l’educazione dei figli degli zapatisti non poteva più essere richiesta agli insegnanti che mandava il governo, ma doveva e poteva essere organizzata in forma più orizzontale nelle comunità, chiedendo ai giovani che avevano più istruzione di insegnare ai più piccoli delle comunità. Gli insegnanti del governo spesso non si presentavano, o, quando lo facevano, erano spesso ubriachi; la lingua usata durante le lezioni era lo spagnolo, lingua dei conquistatori e degli oppressori, e non la lingua madre dei contadini. Ancor meno attenzione veniva dedicata alle bambine, che rimanevano nella maggior parte dei casi completamente analfabete. Con l’educazione autonoma i promotori di educazione (nella scuola primaria) e gli educatori (nella formazione secondaria) venivano incaricati ad insegnare dalla comunità stessa. I bambini e le bambine hanno potuto finalmente imparare la propria lingua madre, apprendendo la storia dal punto di vista degli oppressi, studiando le scienze e le tecnologie utili alla vita sociale ed economica della comunità. L’educazione autonoma ha come obiettivo quello di dare agli indigeni gli strumenti per poter vivere e lavorare senza avere un padrone e senza dover sottomettersi al sistema capitalista, bensì per essere utili alla comunità e vivere con dignità.
Mentre la discussione proseguiva intorno al tavolo, è apparso alla porta il compagno V., fratello di O., che alcuni dei nostri compagni di Ya Basta! hanno conosciuto nelle ultime visite in territorio zapatista e che, dopo un altrettanto affettuoso benvenuto, ci ha raccontato e ha condiviso alcuni avvenimenti e pensieri. Ci ha raccontato, per esempio, che qualche settimana fa si è presentato al caracol un gruppo di guatemaltechi che volevano chiedere consigli a loro su come organizzarsi e avanzare nel riconoscimento dei propri diritti. Gli zapatisti hanno apprezzato la loro determinazione nel proseguire la lotta e nell’organizzarsi, ma hanno ricordato loro che, finché le loro richieste erano state rivolte al governo, non avevano ottenuto nulla, perché quello che concede il governo a quelli in basso viene dato per indebolire il movimento e per diminuire la fiducia nell’autorganizzazione: indigeni e contadini possono governarsi da soli senza bisogno dei professionisti della politica che non conoscono i poveri e che appartengono al sistema dominante. Hanno raccontato agli indigeni guatemaltechi la strada che gli zapatisti stanno percorrendo, cioè quella della costruzione di un sistema di vita e di relazioni autonome e alternative al governo e al sistema capitalista.
Abbiamo chiesto loro cosa pensassero della marcia dei migranti salvadoregni che negli ultimi mesi hanno attraversato il Messico e quindi anche il Chiapas per rivendicare il diritto a cercare un lavoro degno dove meglio desiderano. O. ha ribattuto chiedendo a noi come la pensassimo, e per noi è stata anche un’occasione per parlare di quello che sta succedendo nei nostri territori, dall’altra parte dell’oceano. O. ha ascoltato con attenzione e, riferendosi invece a quello che sta succedendo qui, con molta lucidità ha espresso il parere che l’emigrazione è un fenomeno molto complesso, e che non sempre allontanarsi dalla propria terra e dal proprio popolo è la scelta giusta: abbandonare la terra per andare a vivere nelle città spesso significa perdere tutto e non trovare più le risorse necessarie per mangiare e sopravvivere. Hanno concordato con noi sull’importanza del fatto che finalmente migliaia di migranti si fossero uniti e organizzati per rivendicare il diritto al lavoro e che è sempre giusto rivendicare il diritto di restare o di andare dove meglio si crede per cercare una vita migliore.
Ci hanno accompagnati poi nella milpa (campo nel quale si coltivano mais e fagioli) della comunità, e il piccolo L., figlio di O., ci ha mostrato come si raccolgono le pannocchie di mais, che in quel momento erano tenere, dolci e mature, e fatto assaggiare fagioli di differenti qualità e colori, che la comunità sta sperimentando. Dopo un poco di timidezza iniziale, è stato bellissimo vedere Anita e D., figlia di O., giocare, comunicare e ridere, ridere tanto pur parlando due lingue diverse.
Abbiamo fatto il giro della comunità, visto la escuelita, la grande cisterna d’acqua piovana costruita da loro, il campo da basket e infine il grande auditorium della comunità, coi muri dipinti con le tredici domande dell’EZLN nell’insurrezione del 1994. V. ci ha detto che l’auditorium era stato costruito negli anni ‘90 con la collaborazione di un gruppo di italiani solidali.
Durante il pranzo eravamo rimasti deliziati dal miele di loro produzione, che normalmente vendono a San Cristòbal e a Comitàn; ne abbiamo comprato qualche barattolo da portare in Italia in ricordo di questa visita speciale. Come scritto sull’etichetta: “Alimenta resistencias y fortalece la esperanza con rebeldìa”. [CONTINUA...]

CAROVANA IN CHIAPAS 2018/19 - Seconda parte
Mercoledi 12 dicembre 2018
Oggi abbiamo visitato la comunità di San Francisco, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. La comunità si trova nel municipio di Teopisca, in mezzo alle montagne e a 30 minuti di macchina dalla strada principale. E´costituita da circa 50 famiglie che dopo il ´94 hanno occupato le terre, che prima lavoravano in stato di semischiavitù per un grande proprietario. L´EZLN, con la sua prima dichiarazione durante l´insurrezione del 1 gennaio del 1994, fece appello a tutti gli indigeni senza terra a riappropriarsi dei territori che il sistema coloniale e capitalista gli aveva portato via, ma che lavoravano per i discendenti dei colonizzatori spagnoli o per i grandi proprietari terrieri. Così fecero i contadini indigeni della comunità di San Francisco che abbiamo visitato oggi: hanno invitato i "caporali" del padrone a unirsi alla lotta o ad andarsene e si sono riappropriati della loro terra. Nella cultura indigena la terra non dovrebbe avere padroni, non dovrebbe essere oggetto di compravendita: è la madre di tutti coloro che la vivono, la curano e la coltivano ed è inconcepibile che qualcuno se ne appropri godendo del frutto del lavoro altrui. I contadini di San Francisco hanno così cominciato a lavorare la terra in collettivo e gradualmente hanno abbandonato l'utilizzo degli agrochimici tornando a metodi di lavorazione più naturali e rispettosi della natura. Riconoscendo poi che la loro lotta era ispirata alle dichiarazioni dell´EZLN, hanno aderito alla Sexta Declaraciòn della Selva Lacandona. Alcuni anni fa la comunità aveva deciso di occupare una terra di 140 ettari abbandonata da molti anni dal suo propietario, il quale però ha prontamente mandato dei sicari che sono entrati in conflitto con i contadini generando situazioni di tensione. Queste modalità di azione sono frequenti, e la storia della comunità di San Francisco è esemplare anche per capire come il governo messicano cerca di far tacere le ribellioni dell´EZLN e di tutti coloro che non accettano di essere derubati e umiliati dalla logica capitalista. Il governo messicano ha dichiarato infatti ai ribelli una guerra di bassa intensità, fatta di favori a comunità indigene non organizzate, a patto di entrare in conflitto armato o in contesa di rivendicazione delle terre con le comunità zapatiste o con gli aderenti. In questo ultimo anno il conflitto con i contadini vicin a San Franciscoi si è peró placato, grazie alla mediazione di organismi non governativi come il Frayba e il Desmi; come detto spesso i conflitti per la terra nei territori indigeni sono alimentati dal governo o dai partiti ma, quando si riesce a escluderli, il dialogo tra indigeni e contadini diventa sempre possibile e si raggiungono accordi soddisfacenti per tutti. Abbiamo avuto un po' di difficoltà ad arrivare alla comunità, ma i cartelloni dei territori liberati per diritto legittimo ci hanno condotti fino a San Francisco. Il fatto che un nostro compagno, nella sua permanenza in Chiapas, avesse appoggiato direttamente la comunitá, ci ha permesso di essere accolti con molta naturalezza e affetto. Qui, come in tutto il Messico, sono giorni di festa per la Vergine di Guadalupe. Per le strade é pieno di camioncini di pellegrini che si danno il cambio per portare correndo una delle torce accese verso uno delle migliaia di santuari dedicati alla madonna. Al nostro arrivo era ancora in corso la funzione religiosa nella ermita (chiesetta) Anche ieri, come oggi, una cosa che ci ha colpito é il grande campo da basket. Ogni pueblo piccolo o grande che sia ne ha infatti uno. Spesso, ci raccontava il giorno pirma il compagno V., la promessa della costruzione del campo da basket da parte delle istituzioni crea un pretesto per una serie di aiuti governatvi che hanno l'obiettivo di distogliere le comunità dai principi della lotta per l'autonomia. Dopo i saluti di benvenuto ci hanno condotti nella ermita addobbata a festa e gremita soprattutto di donne, che ci hanno offerto, proprio davanti all’altare, tamales e atol (bevanda a base di mais, acqua, cannella e zucchero che è stata poi fatale per alcuni di noi); tra sguardi pieni di dignità e rispetto reciproco siamo rimasti seduti sulle panchine della chiesa per un prezioso e indefinito tempo chiacchierando un poco con loro. Sono stati silenzi pieni, e anche quando é arrivato il momento di presentarci e ascoltare la storia della loro lotta, le parole dei compagni con incarichi comunitari sono state pronunciate a voce bassa e lentamente, ma sono state sempre molto significative: “nuestra lucha sigue, aunque todavia no miramos donde vamos a llegar” (la nostra lotta continua, nonostante ancora non vediamo dove arriveremo) “la nuestra fuerza esta en el trabajo colectivo y en las asembleas” (la nostra forza è il lavoro collettivo e le assemblee). Donne e uomini infatti prendono decisioni collettive, coltivano le terre e, soprattutto le donne, hanno una grande conoscenza della medicina naturale con erbe curative, alternative al sistema farmaceutico capitalista. Non potevamo non parlare di cosa rappresenta per noi la data di oggi e, trovando anologie con il massacro di Tlatelolco del 2 di Ottobre 1968, segnato anch'esso dalla violenza di stato contro il popolo, abbiamo insieme a loro ricordato le vittime delle stragi dello stato italiano e l’anarchico Giuseppe Pinelli.
Giovedì 13 dicembre
Oggi siamo andati nella periferia di San Cristobal dove, aldilà di un lunghissimo muro di cinta colorato, ha sede un’università atipica: il CIDECI “Centro indigena de capacitaciòn Integral”, o Università della Terra. Il CIDECI non riceve alcun aiuto dallo Stato ed è un vero e proprio ponte con il mondo indigeno, in particolare quello che si ispira allo zapatismo, per la formazione professionale. E’ una scuola informale che assomiglia più alle università medioevali, quando queste erano un vero centro di cultura e ricerca invece che, come oggi, un luogo per produrre laureati, e dove i docenti vengono definiti semplicemente Maestri. Al portone siamo attesi: Santiago, un giovane maestro del CIDECI, ci accompagna nella visita e ci racconta come è nata e come è strutturata questa ‘università’. Il CIDECI è uno spazio non governativo nato nel 1989 per permettere a giovani indigeni del Chiapas, ma anche di altri paesi dell’America centrale, di avere una formazione. Inizialmente si trovava in città presso una casa intitolata a Don Bosco e di proprietà della diocesi di San Cristòbal, sotto il vescovo Samuel Ruiz. Nel maggio 2005 c’è stato il trasferimento in quella che è la sede attuale, dove nel tempo sono stati costruiti edifici colorati e curati nei minimi dettagli, con ambienti nei quali natura e piante sono elementi predominanti. Le istituzioni, a cui fa comodo avere indigeni non coscienti dei loro diritti e da sfruttare, hanno cercato in tutti i modi di ostacolare questa grande sfida e le modalità per generare paura e difficoltà sono state molteplici: nel 2006, ad esempio, hanno tagliato senza un motivo valido la fornitura di energia elettrica che è stata poi ripristinata attraverso un generatore che va a combustibile, e che ancora oggi fornisce l’elettricità all’intera struttura; nel 2013 ci sono state anche pressioni e minacce di funzionari governativi accompagnate dalle strutture repressive dell’esercito per esigere pagamenti non dovuti. Le difficoltà però, invece di indebolirla, hanno rafforzato la determinazione nel proseguire, ed è cresciuto sempre più l'interesse per il Cideci da parte delle comunità indigene aperte all’autonomia. Nella scuola possono accedere indigeni di ambo i sessi (le ragazze però sono meno dei ragazzi) a partire dai 12 anni, o prima, se accompagnati da fratelli maggiori. Non ci sono esami e non c’è un tempo stabilito per la permanenza, né limiti di età; per accedervi è sufficiente una lettera di presentazione della comunità di appartenenza. All'interno della struttura ci sono anche gli alloggi, ma accedono anche allievi che abitano in città o chiunque abbia voglia di apprendere. Quando ci si sente pronti si ritorna nella comunità di origine condividendo e mettendo in pratica le competenze acquisite. La conclusione del percorso è quindi soggettiva e non viene rilasciata alcuna certificazione ai giovani. Quello che importa è avere una competenza reale per lavorare nelle proprie comunità e non per delle imprese. La verifica di quello che qui chiameremmo successo formatito viene fatta dalla comunità, che verifica nella pratica se l’allievo ha davvero imparato. Ci sono diversi talleres, cioè laboratori formativi, ognuno in un ambiente dedicato diverso: carrozzeria, cucina, panetteria, calzoleria, laboratorio di tortillas, meccanografia, informatica, musica, lettura e scrittura, sartoria, pittura e decorazione, elettronica, serigrafia, falegnameria, disegno architettonico, meccanica, agroecologia, allevamento integrato, laboratori professionali di infermeria, elettricità, parrucchiere, fabbro, coltivazione funghi e spore ecc. Vengono proposti in una prima fase tutti i laboratori e successivamente si sceglie a seconda delle proprie attitudini. A percorso concluso il Cideci si impegna a fornire materiali e strumenti per seguire e avviare i progetti personali dei giovani studenti che condividono quanto appreso nei propri villaggi. Rimane comunque una relazione nel tempo con l' Università della Terra, che manda i propri maestri nelle comunità qualora ce ne sia bisogno e chiarisce dubbi e richieste di coloro che sono stati allievi. Molto spesso i maestri sono stati a loro volta allievi, come è stato anche per Santiago, che ha studiato qui per otto anni musica e adesso è un maestro. Nell’Università della Terra non ci sono bidelli, i maestri lavorano insieme agli allievi a produzione di oggetti, un po’ come avveniva nelle botteghe artigiane e d’arte del Medioevo e del Rinascimento. Nella vita quotidiana all’interno della struttura viene stimolato il senso di responsabilità e di rispetto e, a turno, ci si organizza per le pulizie, la gestione della cucina e le varie incombenze quotidiane. Vi sono numerosi spazi comuni quali l’auditorium, biblioteche, sale riunioni, molti luoghi di culto e campi da basket. Abbiamo fatto il giro nei vari talleres dove ragazzi erano intenti a cucire, lavorare il legno, suonare; la bellezza degli spazi è difficilmente descrivibile a parole. Tutti gli edifici sono stati costruiti senza bisogno di ricorrere a imprese specializzate o ingegneri o architetti del mercato capitalista: tutto è stato progettato e costruito con le risorse di quelli in basso. All’interno dell’Università della Terra la lingua utilizzata è lo spagnolo, ma negli incontri comuni ogni intervento viene tradotto nelle due lingue indigene del territorio: tzotzil e tzeltal. Il percorso educativo infatti procede in parallelo tra la parte pratica, operativa, e quella teorica proposta attraverso seminari, conferenze e presentazione di libri a cui partecipano moltissime persone, tra cui una buona parte sono gli allievi indigeni che vivono nel Cideci. L’Università della Terra è infatti anche un punto di incontro per attivisti locali e stranieri e vi sono alcuni appuntamenti fissi settimanali e mensili. Quella sera abbiamo avuto la fortuna di partecipare a un “Seminario de la Sexta”, appuntamento fisso del giovedì sera. Il ”seminario” è dedicato all’analisi e alla riflessione su articoli di stampa interna ed estera: nella settimana precedente a ogni incontro vengono scelti e selezionati degli articoli di attualità politica, di economia, ecologia...che all’inizio della serata vengono consegnati in copia ai partecipanti, ed in seguito riassunti e presentati ad allievi o attivisti. La particolarità di questi incontri è che gli articoli vengono riassunti sempre prima in lingua tzeltal, tzotzil e poi in spagnolo. Alla fine dell’esposizione i presenti possono intervenire con commenti o osservazioni e prendere spunto anche per proporre nuove questioni che si ritengono rilevanti, lasciando esprimere quello che suggerisce “el propio corazòn”. Il proprio cuore. In quel luogo quello che trasmette il cuore è infatti molto più importante di quello che suggerisce il cervello. Questi incontri rappresentano un grosso stimolo di riflessione e di condivisione e alimentano la motivazione nel proseguire in questo percorso individuale e collettivo; sono insomma un vero percorso formativo valido sia per i giovani che per gli adulti che lo frequentano.
Venerdì 14 dicembre
L`incontro con la Giunta del Buon Governo del caracol di Oventic ci viene fissata da G., compagno della Cooperativa Yachil che raccoglie il caffè dai produttori de Los Altos del Chiapas, da cui proviene il caffè che noi distribuiamo in Italia. Arrivati al cancello del caracol un compagno della Commissione Vigilanza ci riceve con il volto coperto dal paliacate, prende nota dei nostri nomi e ci dice che dobbiamo aspettare altre persone che parteciperanno all'incontro. Dopo un po' di attesa fuori dal caracol escono due basi di appooggio; si presentano: sono A., il presidente della cooperativa Yachil, e F., il segretario; ci avvisano che sia il tesoriere P. sia G., che si occupa invece della parte commerciale, non potranno esserci. Le attese sono una norma quando si parla con la Giunta perché i componenti sono sempre impegnati nella gestione delle problematiche che via via si presentano. I tempi delle popolazioni indigene del Chiapas, ma anche di tutto il Messico, sono diversi dai tempi europei e occorre accettarli se vogliamo liberarci dalla nostra visione eurocentrica dove gli standard e i criteri di buon funzionamento delle questioni sono l'efficienza e il decisionismo trascurando la condivisione. D'altra parte, fuori da caracol di Oventic, c'è un cartello con un disegno di una lumaca che dice: “Lento pero avanzo“. Il cartello ci suggerisce quindi la pazienza. Finalmente ci fanno entrare nel caracol, ci accompagnano fuori dalla Oficina de la Junta del Buon Gobierno - Corazón Céntrico de los Zapatistas delante del mundo – snail tzobombail yu’un lekil j’amteletik - tao’lol yo’on zapatista ta stukil sat yelob sjunul balumil (la prima scritta in lingua tzotzil e la seconda in tzeltal, le due lingue maya principali parlate nella zona de Los Altos del Chiapas). La Giunta che ci accoglie è composta da tre donne di età diversa con il viso coperto da un paliacate; non costituiscono l'intera Giunta perché, ci dicono, altri stanno affrontando altre incombenze. Ci presentiamo: E., Anita, A., M. e G. e i due compagni della Cooperativa Yachil, insieme alla Giunta, ci danno il benvenuto. Attenti ascoltano la lettura delle nostre lettere, indirizzate alla Giunta una e alla Cooperativa l'altra. In quella per la Giunta ripercorriamo brevemente la nostra storia, rinnoviamo la nostra vicinanza alla lotta zapatista, confermiamo la nostra presenza all’incontro di fine mese delle reti messicane e internazionali di resistenza e appoggio al CNI e ribadiamo l’importanza di vedersi. Ci teniamo in questa occasione a consegnare i 2000 euro (45000 pesos) raccolti in questi due anni grazie ai sostenitori del progetto caffè che appoggiano la lotta zapatista e ci rassicuriamo poi sullo stato delle ambulanze che Ya Basta! Milano aveva donato al caracol di Oventic per appoggiare la salute autonoma. Ci rispondono che una, quella dedicata alla comandante Ramona ha concluso il suo ciclo di vita e che invece l’ambulanza “Davide Dax” è ancora ben funzionante. La risposta sui problemi della rimanente ambulanza, quella dedicata a Carlo Giuliani, e se in qualche modo possiamo essere d'aiuto, ce la daranno in seguito per iscritto. Sul muro, dietro le spalle delle tre compa della Giunta, si trova una grossa bacheca con 12 bastoni neri: chiediamo loro cosa significhino. Ci rispondono che sono i bastoni di comando che rappresentano i 5 caracol e i sette municipi che compongono la regione autonoma del caracol II di Oventic. Ci ringraziano per la visita e dopo i saluti un compagno ci accompagna a vedere il caracol e fotografare i bellissimi murales. Chiediamo di poter passare dalla Clinica autonoma La Guadalupana, che si trova dentro il caracol, per chiedere una medicina per Anita che da un paio di giorni ha una persistente tosse secca. Anita viene visitata da una "promotora de salud" con il suo bambino di neanche un anno avvolto in un grande scialle assicurato alla sua schiena. La promotrice ausculta Anita con lo sfigmometro, le misura febbre, battiti del cuore e il livello di ossigenazione con l'apposito strumento, le controlla la gola e infine le prescrive una medicina naturale a base di eucalipto che compriamo al laboratorio di medicine naturali e che si trova dentro la clinica stessa. (Nota a posteriori: Anita nel giro di due giorni è guarita anche se: “l'eucalippo non mi piace!”) Con i componenti della cooperativa ci salutiamo con la promessa di un incontro a breve con tutti i componenti; il presidente è di una gentilezza rara e riporta al segretario quanto detto in tzotzil; abbiamo cosí l'impressione che il segretario parli solo tzotzil o comunque non domini lo spagnolo. Ci sono delle tiendas (negozietti) come quello “de las mujeres” con prezioso artigianato zapatista fatto a mano; ne prendiamo un po' per i nostri banchetti in Italia. Veniamo infine allietati da una delle migliori comidas di questo viaggio. Quello di oggi è stato un incontro che attendiamo da quando abbiamo deciso di fare questo viaggio e, come tutti i momenti che si attendono con ansia, è stato diverso da come lo immaginavamo. Si è respirata un'aria raccolta, impegnata e intensa, sempre fatta di poche parole ma di gesti lenti e quasi rituali che riempiono gli ambienti e la memoria.

CAROVANA IN CHIAPAS 2018/19 - Terza parte
Domenica 16 dicembre 2018
Il Caracol si trova a meno di un km dalle cascate di Roberto Barrios, formate dal fiume Chancalà. Abbiamo aspettato un po’ fuori dal Caracol e, durante l’attesa, la piccola delegazione del Coro Ingrato ci ha allietati con canti di lotta. I compagni della Commissione di Vigilanza ci hanno poi fatto visitare il Caracol.
Martedì 18 dicembre
Arriviamo a Morelia circa alle 10. La commissione si vigilanza ci chiede un documento, ci presentiamo come membri dell’associazione Ya Basta! Milano e chiediamo, qualora possibile, di visitare il Caracol. Proprio qui, anni fa, G. ha fatto il maestro di matematica per i promotori di educazione della scuola secondaria indigena e autonoma.
Nell'attesa fuori dal Caracol IV, che viene chiamato "Torbellino de nuestras palabras" (Vortice delle nostre parole), c'è un via vai di compagni che ci salutano tutti molto calorosamente, dandoci la mano. Tra coloro che si presentano alla porta del Caracol ci sono anche non zapatisti. Non sappiamo quale problema presenteranno ma è frequente che la Giunta del Buon Governo dell'EZLN debba affrontare non solo le questioni dei base di appoggio che fanno riferimento a quel Caracol ma anche quelli di campesinos non zapatisti che preferiscono rivolgersi a loro piuttosto che alle istituzioni: problematiche di giustizia comunitaria, di produzione o di relazioni commerciali vengono certamente affrontate meglio da chi le conosce direttamente che non dagli organismi politici ufficiali che giudicano principalmente con la logica dell'interesse economico del più forte.
Ci dicono che la Giunta è impegnata in una riunione ma che, una volta finita, i membri della Giunta avrebbero piacere a salutarci.
Mentre aspettiamo di essere ricevuti dalla Giunta giriamo il Caracol e immortaliamo i bellissimi murales, stando attenti però a non fotografare i compagni presenti nel Caracol. Sono tutti gentili e disponibili a parlare con noi; due compagni ci fanno sapere con grande gioia e orgoglio che a febbraio ci sarà un incontro in una comunità dove si riuniranno circa 180 alunne zapatiste per apprendere e giocare a calcio : per una settimana istruttori dall'Italia, promotrici e alunne indigene insieme sulla "cancha" di football, sarà un taller de puras mujeres.
L'incontro con la Giunta "Corazón del arco iris de la esperanza” è breve. Giusto il tempo per presentarci e ringraziarli dell'inaspettato invito a incontrarci. Usciamo dal Caracol e nella vivace piazza di Altamirano, risalendo in macchina, si avvicina un indigeno con una vistosa maglia dell'Inter. È A., della commissione educazione del Caracol 4, che riconosce G. Dopo gli abbracci, anche lui con grande soddisfazione ci parla del prossimo arrivo degli allenatori italiani di Intercampus per le lezioni di calcio con sole alunne zapatiste. Si percepisce che tutti gli zapatisti che stanno preparando l'evento sono ben coscienti della eccezionalità di dar spazio al genere femminile: gli zapatisti stanno portando avanti il tema della parità di genere nelle proprie comunità autonome e questo può essere uno stimolo anche per le vicine comunità indigene non zapatiste.
Mercoledì 19
Oggi siamo stati al carcere di San Cristobal de Las Casas “CeReSo 5 ”. E. dice: non avrebbe mai pensato di entrare in un carcere messicano, invece sono qui e alle volte la realtà supera di gran lunga i film. Fin dai primi controlli è stato come essere catapultati in una dimensione a sé, con meccanismi e regole tutte sue, alle volte incomprensibili. Eravamo stati avvisati di non indossare jeans o pantaloni neri perché non ci avrebbero fatti entrare (sembrerebbe che ricordano i pantaloni delle guardie e che quindi creerebbero confusione). Abbiamo portato quindi dei ridicoli pantaloni colorati nello zaino, rossi e a zampa di elefante per E. e un pigiama a righe per A. Una volta lì, però, ci rendiamo conto che i divieti sono molti di più: non si possono introdurre vari tipi di frutta (potrebbero fermentare ed essere trasformati in alcoolici) indossare gonne, tacchi, indumenti di colore verde, scarponi, parrucche, oggetti di tecnologia e tanto altro.
Chiediamo di poter vedere il compagno Adrian; la direttrice del carcere era stata avvisata di questa visita quindi ci fanno entrare senza problemi. Nel cortile una scena particolare: sembrava che guardie e alcune donne detenute stessero preparando una recita di Natale ballando e cantando. I vari step prevedono una card numerata per ognuno, un primo timbro, i controlli in stanzini divisi per uomini e donne. Ai controlli effettivamente ci fanno mettere i pantaloni che avevamo portato e chiudono invece un occhio sulle scarpe nere. Cancelli che si aprono, cancelli che si chiudono, nuovi timbri sul braccio e siamo dentro.
Siamo nell’area maschile; pensavamo di incontrare solo Adrian ed invece ad attenderci ci sono anche Juan e Alfredo. Sono felici di vederci. Attraversiamo un cortile di cemento con uomini impegnati nelle attività più disparate: chi sta in gruppo seduto su panchine, chi prepara un caffè, chi è davanti a un fuocherello improvvisato. A un certo punto qualcosa di insolito: dei grossi telai con fili coloratissimi che uomini maneggiano con maestria. È quasi surreale; sembra un piccolo villaggio in movimento con persone intente nelle proprie attività; quasi dimentichi di essere in carcere, sembra un ambiente vivo e “non male” . La sensazione di questo impatto dura il tempo di qualche passo, si trasforma pian piano in un escalation di presa di coscienza e quando ricomponi i pezzi ed esci da lì, il senso di oppressione e impotenza è tanto che quasi ti vergogni di averlo pensato .
I compagni ci portano nel loro piccolo spazio esterno, “nuestro lugar” dicono: sono dei bei tavoli di legno sul quale sono state colorate caselle per giocare a scacchi, una stella rossa e la scritta EZLN ben in vista. Ci offrono tè e biscotti, ci accorgiamo però che loro né mangiano né bevono. Infatti sono in sciopero della fame per rivendicare la mancanza di diritti dei carcerati. Ci presentiamo, ci ascoltano con attenzione e a seguire, uno per volta, ci raccontano le loro storie. Sono storie dettagliate, si soffermano tutti sulle date e sugli orari precisi degli avvenimenti che hanno portato alla loro carcerazione. Sono passati tanti anni ma è come se per loro si fosse fermato il tempo. Non è compito nostro indagare sulla verità delle storie in sé, sull’innocenza o meno. Quel che è certo è che sono racconti che riportano modalità e ingiustizie che qui sono all’ordine del giorno, soprattutto sulla pelle degli indigeni, facili e comodi capri espiatori a cui addossare delitti e omicidi. Trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato spesso è determinante; due di loro ad esempio si trovavano casualmente (uno per lavoro, l’altro per cercare un curandero) in luoghi dove era scomparso qualcuno qualche tempo prima. È così che, all’improvviso, si sono ritrovati caricati a forza e bendati su una macchina e portati in una Casa Particular, “casette delle torture” messe in atto anche da agenti di polizia, spesso assistiti da "fiscales" (giudici di ultima categoria).
In tutte e tre le storie i dettagli sulle torture sono agghiaccianti e le modalità assodate e reiterate; calci, schiaffi, pugni, occhi bendati, soffocamento con borse di plastica, peperoncino nel naso, cavi elettrici nelle parti intime, armi puntate alla tempia, svenimenti continui con risvegli con acqua fredda, no cibo, no acqua. Tutto questo porta a stati di impotenza assoluta e molto spesso ci si ritrova a firmare con false promesse o senza sapere nulla dei reati che vengono attribuiti. Le ingiustizie continuano in quei luoghi e con quelle persone che dovrebbero rappresentare la legge. È noto che la corruzione rappresenta un grave problema in Messico e tra giudici, avvocati corrotti, false testimonianze e addirittura minacce alla stessa controparte se non dichiara la colpevolezza dell’imputato, la speranza di uscire è spesso nulla. Per esempio, uno dei nostri interlocutori è stato messo in carcere dal 2004 ed è ancora in attesa di una sentenza (14 anni di carcere senza alcuna sentenza!!).
Il detenuto, una volta sentenziato e condannato a una determinata pena, dopo aver scontato il 60% della pena inflitta, può chiedere una riduzione della stessa a condizione che gli sia riconosciuta la buona condotta e la sua partecipazione alle attività carcerarie; ma se, come spesso accade, la pene sono cumulative (omicidio insieme a estorsione, ad esempio) bisogna prima espiare completamente la prima. Non è difficile comprendere che la disillusione e la sfiducia nei confronti della giustizia è totale. Questo ha portato i detenuti, in alcuni casi, ad organizzarsi contro il sistema giudiziario. Adrian, Juan e Alfredo, per esempio, hanno costituito “La Voz Indigena en Resistencia, adherente a la Sexta Declaraciòn de la Selva Lacandona”, con il proposito di “difendere i nostri diritti e ricordando lo stato di estrema emarginazione in cui si trovano i detenuti”. Alcuni detenuti si avvicinano all’organizzazione “La Voz Indigena en Resistencia” del Cereso 5 anche solo per essere sostenuti nelle problematiche di ordine quotidiano; chi invece vuole farne parte deve assumersi la responsabilità di questa scelta nei confronti proprio e degli altri compagni. Alcune piccole conquiste nel tempo sono state ottenute, come ad esempio il cambio del corrotto difensore d’ufficio.
L’organizzazione dei detenuti nel Cereso 5 come di altri detenuti in altre carceri chiapaneche, è sostenuta dal Grupo de Trabajo No Estamos Todos, che li visita settimanalmente e promuove le visite di compagni internazionali, che rappresentano per loro anche un modo di essere in qualche modo protetti dagli abusi delle guardie carcerarie e dalla direzione, che non vede di buon occhio la loro autorganizzazione. Ci hanno raccontato di come è scandita la loro giornata: le celle rimangono aperte tutto il giorno, solo la notte devono rientrarvi e vengono chiuse, tre volte al giorno avviene la “conta” dei detenuti, le attività che si possono fare sono diverse ma soprattutto vengono realizzati prodotti di artigianato come amache o, nel laboratorio di carpenteria, bellissimi mobili e oggetti in legno. I prodotti finiti vengono venduti all’esterno e rappresentano il sostentamento di gran parte dei detenuti. Qualcuno lavora invece all’interno dei servizi carcerari, come ad esempio in cucina, e riceve una paga di 20 pesos al giorno. Spesso la qualità del cibo distribuito è scadente ed i detenuti hanno il permesso, con piccoli fornelli elettrici, di poter cucinare rifornendosi nei piccoli negozietti all’interno. I giorni di visita sono il martedì, il giovedì e la domenica. Esiste anche la possibilità di incontri coniugali in una apposita stanza adibita a questo scopo e ci si può fermare lì dal Sabato fino al Lunedì mattina presto.
Ci dicono che ci sono pochi “mestizos” o “güeros” (bianchi) e quei pochi godono di maggiori privilegi; alle loro mogli ad esempio è permesso entrare indossando la gonna o portando frutta, concessioni negate alle famiglie indigene. Ci raccontano di dinamiche interne di potere ma non vogliono soffermarsi su questo aspetto. Passano cosi più di quattro ore, quelle storie rimbombano nelle nostre menti, capiamo però che per loro è importante condividerle e farle sapere, è una delle poche cose che possono fare.
Fino a quel momento siamo stati negli spazi esterni delimitati da grandi mura intorno a noi, ci hanno poi però accompagnati negli spazi comuni interni e nelle celle, tra gli sguardi curiosi degli altri detenuti. Il carcere è diviso in “navate” costituite da un grande campo da basket centrale (ai cui bordi in molti stavano tessendo sui grandi telai le amache), a dividere il campo dalle celle una enorme inferriata e dei minuscoli corridoi con fornelli e sedie improvvisate. Descrivere la cella non è facile; in uno spazio minuscolo sono stati ricavati 11 spazi per dormire; quando necessario qualcuno dorme per terra in un’intercapedine piccolissima tra il pavimento e la base del letto sopra, il bagno è giusto lo spazio del wc, e in un’altra intercapedine vengono accatastati piatti, bicchieri e posate; per ricavarsi spazi personali ridotti all’osso vengono messi dei pannelli di legno che delimitano il proprio spazio letto.
E’ giunta l’ora di andare per noi: ci accompagnano fino al cancello, che per loro rappresenta la divisione tra “dentro” e “fuori”, ci abbracciamo, parliamo delle modalità per restare in contatto attraverso la rete di appoggio tenuta dal Gruppo No Estamos Todos e ci attardiamo un po’ con i saluti. Non è facile. La guardia apre il cancello. Noi frastornati lo superiamo; ancora tutti gli step al contrario per uscire, porte che si aprono e che si chiudono dietro di noi, revisione accurata negli stanzini. E siamo fuori.
Venerdì 21 dicembre
Oggi c'è stato l'incontro con la Cooperativa Yachil ,che raccoglie il caffè dai produttori zapatisti de Los Altos e che si occupa della sua vendita senza passare per gli intermediari che ricattano i contadini e tengono i prezzi bassi per tirare il collo ai lavoratori del campo.
Tra i compratori ci sono soprattutto gruppi o collettivi che sostengono dall'Europa ma anche da altre parti del mondo la lotta zapatista, e che attraverso la vendita del caffè, oltre ad appoggiare l’autonomia zapatista, cercano di diffondere la conoscenza su questo pezzo di mondo che sta portando avanti da 25 anni un’alternativa al capitalismo, combattendolo e mostrandone la disumanità. Tra di loro ci siamo anche noi che dal 2003, tra alti e bassi, portiamo avanti il progetto Caffè Rebelde Zapatista con questo obiettivo.
La sede della Cooperativa Yachil si trova nella Colonia Nueva Maravilla, uno dei quartieri più poveri di San Cristòbal e dove sorge anche l’Università della Terra – CIDECI. Ci accolgono A., il presidente della Cooperativa Yachil, il Tesoriere F., P. che si occupa delle ordinazioni e G. della parte commerciale. Ci sediamo intorno a un tavolo nel cortile dove ci presentiamo reciprocamente: è sempre importante per loro precisare la comunità o il pueblo di provenienza. Dentro invece si sta svolgendo una riunione di 9 giovani basi di appoggio, probabilmente impegnate in un taller di apprendimento.
Ribadiamo la nostra felicità nel vederci di persona, li aggiorniamo sul progetto Café Rebelde Zapatista e ci confrontiamo anche su questioni tecniche e logistiche. Parliamo della certificazione. Negli anni, gli zapatisti de Los Altos del Chiapas hanno spedito in Europa un caffè certificato organico dalla Agenzia privata chiamata Certimex. L’Agenzia manda dei suoi funzionari nelle piantagioni di caffè zapatista per fare dei controlli che assicurino che i processi di produzione siano rigorosamente rispettosi della agricoltura organica. Tutto ciò in realtà sarebbe superfluo perché in Europa la certificazione serve per garantire che la coltivazione rifiuti le logiche dell’agricoltura industriale che rappresenta la norma in una economia capitalista, mentre nelle comunità indigene zapatiste, fin da piccoli, nelle scuole autonome si insegna e nei campi si pratica l’agroecologia, e non l’agronomia come da noi. L’agroecologia, come la intendono gli zapatisti, è un’agricoltura che rispetta la terra e l’ambiente, che si preoccupa di non sfruttare la terra ma piuttosto di curarla. La cosa risulta evidente viaggiando in Chiapas lontano dalle strade principali: quando si vede un campo ad agricoltura intensiva con le piante fitte fitte è certamente un campo coltivato con gli aiuti del governo e da agricoltori filogovernativi, mentre se si incontra un campo con le piante ben distanziate le une dalle altre, quello è certamente zapatista o aderente alla Sexta, ovvero filozapatista.
Un altro elemento per convincersi di questo è come nelle comunità indigene zapatiste si fa la semina: il giorno viene accuratamente scelto tra quelli che precedono il periodo delle piogge. Il giorno prima della semina si fanno delle cerimonie e riti che oltre a rinsaldare i vincoli culturali della comunità hanno il significato di “chiedere scusa alla terra” per “ferirla” allo scopo di inserire nella “ferita” il seme. La terra è madre, una madre che nutre i suoi figli e che quindi deve essere curata e rispettata affinché possa continuare a nutrire i suoi figli. La certificazione ufficiale è spesso chiesta dai compratori/sostenitori europei, a cui a loro volta i consumatori/solidali la richiedono... ma a fronte di quanto detto non sarebbe davvero necessaria.
Ci facciamo spiegare come avviene la trasformazione del “pergamino”, così si chiama la ciliegia di caffè “spolpata” in oro verde calidad europea: si fa seccare il pergamino , si ripulisce di tutte le tracce di polpa ancora attaccate al seme e i chicchi più piccoli vengono eliminati.
Chiediamo anche informazioni sulle famiglie zapatiste e non che si occupavano della coltivazione del caffè e che sono dovute fuggire dai loro villaggi perché minacciate dai paramilitari che, come già detto nei report precedenti, sono tollerati e a volte appoggiati dal governo messicano e dall’esercito per combattere e contrastare qualsiasi tipo di autonomia dal sistema capitalista e governativo. Ci dicono che molte famiglie sono finalmente ritornate alle loro case ma che tuttora alcune, di Aldama e di Santa Martha, sono ancora sfollate; la situazione è rientrata ma c'è sempre uno stato l’allerta. A Santa Martha, Emiliano Santiz Hernandez, lavoratore indigeno, è stato ferito da una pallottola al braccio e sia lui che la sua famiglia hanno tutto l'appoggio e la solidarietà degli zapatisti.
Sulla roya, che è un fungo che ha colpito le piante del Chiapas, ci dicono che da tre anni lo si sta combattendo ma che è ancora presente, soprattutto quando piove. La riunione si avvia alla chiusura e il compagno G., scherzando chiede se la piccola Anita può restare in Chiapas con loro.
Ci salutano con “amor zapatista” . [CONTINUA...]
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